ufficio stampa pro vita e famiglia

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Solo il 23% degli aventi diritto ha accesso alle cure palliative. 3 storie di coraggio e vita, nonostante tutto.

Coghe (Pro Vita & Famiglia): «Chiediamo che lo Stato ascolti le voci di chi vuole continuare a vivere, fornendo ai malati e alle famiglie il supporto e l’assistenza medica e psicologica che necessitano»

In Italia solo 1 persona su 4 riesce a ottenere l’accesso alle cure palliative, nonostante ne abbia diritto, con alcune regioni, come Calabria o Campania, in cui la copertura è di appena il 18%. Un dato troppo basso, soprattutto se paragonato a quelli di Germania e Regno Unito che raggiungono, rispettivamente, il 64% e il 78%.

«Chiediamo che lo Stato investa non certo nei farmaci per porre fine alla vita di chi soffre, ma in quelli che ne allevino le sofferenze. Chiediamo che siano aiutati a vivere, non a morire», spiega Jacopo Coghe, portavoce di Pro Vita & Famiglia Onlus. Tante sono le testimonianze raccolte dall’Associazione. Storie che vedono il 77% di queste persone in attesa di cure palliative che non riescono ad avere.

Come Andrea Turnu, in arte Dj Fanny. Il 29enne dal gennaio del 2016 è affetto da SLA e non è più autosufficiente. Rispetto a Dj Fabo, Andrea ha fatto una scelta differente. «Credo in maniera molto forte nella scienza e nella ricerca. Una delle mie missioni è proprio quella di sensibilizzare in questo senso le persone». Con il suo progetto “My Window on the Music“, Dj Fanny è nella top 20 dei brani più scaricati da iTunes e ogni download porta fondi alla ricerca sulla Sclerosi Laterale Amiotrofica di Aisla.

Amina, invece, ha 39 anni ed è costretta a letto a causa di una diagnosi e di una cura sbagliata, che le hanno provocato una condizione patologica gravissima e rara quando aveva 2 anni. Da allora necessita di assistenza continua, fornita da sua madre, Rita Basso. Dal 2008 la donna chiede l’assistenza domiciliare perché, in una struttura pubblica, Amina non può ricevere cure adeguate. Una storia di inefficienza, ingiustizia e indifferenza da parte dello Stato, ma anche di sacrifici. «Non mi arrendo – afferma Rita – anzi, sul mio profilo facebook ho invitato i nostri sostenitori ad un “tam tam” mediatico, tramite foto con l’hashtag #iostoconamina con cui si insiste nel richiedere l’assistenza domiciliare per mia figlia. Una battaglia che non ho nessuna intenzione di mollare». I sacrifici di sua madre sono la miglior risposta a tutti gli haters che sui social scrivono «Falla morire».

Quella di Sara Virgilio è una storia che fa riflettere. Nel 1994 viene investita e l’impatto la manda in coma. I medici s’impegnano al massimo ma la danno per spacciata. Sara sente tutto. Il suo corpo è inerte ma la mente vigile. Vorrebbe gridare che lei è lì, che è viva! Solo sua madre capisce che è presente. Sara lotta, affronta tutti gli interventi e supera ogni problematica. Ora è una donna in perfetta salute, che può determinare il suo destino. Laureata in biologia, dice no alla deriva eutanasica. Proprio la sua esperienza la porta a opporsi, con decisione, al testamento biologico e alla cultura dello scarto. «Capisco i dubbi dei medici, tuttavia la vita va rispettata e per me era vita anche quella: io c’ero e volevo esserci. Se avessi firmato il testamento biologico per me sarebbe stata la fine, non avrei avuto modo di comunicare un eventuale ripensamento», afferma Sara.

«Nessuno va lasciato solo di fronte alla malattia – conclude Coghe ma l’applicazione della legge 38/2010 che garantisce l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore è rimasta colpevolmente indietro. Per questo il Parlamento ha il dovere, non più rimandabile, di renderla pienamente operativa, incentivando anche l’uso degli Hospice. È assurdo che, invece, c’è chi proponga l’esatto contrario. Stato e medicina devono stare accanto a chi soffre, ai malati, ai più deboli e fare di tutto per alleviare le sofferenze, non per eliminare il sofferente».

 

Nelle foto:

Sara Virgilio e Roberto Panella